Il percorso di definizione identitaria della professione di counselor ha bisogno ancora oggi, a mio avviso, di una spinta verso libertà fino ad ora, per vari motivi, restate spesso inespresse.
Questo mio contributo sul counseling va in questa direzione.
Vorrei intanto ricordare brevemente che la legge n.56 del 1989 all’articolo 1 dice:
“La professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”.
Poiché questa definizione non parla di “atti caratterizzanti” della professione di psicologo, nel 2015 il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi) elabora un documento dove scrive:
“La consulenza psicologica (o counseling)” e questa equiparazione tout-court è evidentemente arbitraria e non condivisibile “comprende tutte le attività caratterizzanti la professione psicologica, e cioè l’ascolto, la definizione del problema e la valutazione, l’empowerment, necessari alla formulazione dell’eventuale, successiva, diagnosi. Lo scopo è quello di sostenere, motivare, abilitare o riabilitare il soggetto, all’interno della propria rete affettiva, relazionale e valoriale”. Questo espresso dal CNOP è un parere, non è legge.
Anche il Ministero della Sanità ha detto la sua, in più riprese, contraddittorie fra loro.
Questa rinfrescata alla memoria di noi counselor serve per ribadire che ogni volta che pensiamo e declariamo la nostra professione sulla base dei confini della professione dello psicologo, la nostra identità professionale non può che essere interdipendente da essa, dettata da essa. Diamo di fatto patente ad un’altra professionalità di definire la nostra.
Ma quali sono questi confini o almeno alcuni di essi?
Le patologie
Il counselor non lavora sulle patologie, è noto. Ma chi fa la diagnosi per stabilire se una persona che entra in uno studio di counseling ha patologie o meno? Giacché per definire una patologia serve appunto una diagnosi, che non è uno strumento che usa un counselor ed è uno strumento che un counselor non vuole usare.
Dire che “abbiamo un’infarinatura che ci permette tutto sommato di capire se più o meno, a naso, chi ci sta davanti ha dei sintomi secondo il DMS V, almeno per quello che abbiamo letto e quello che ci ricordiamo” è introdurre una pericolosa approssimazione in un campo che non ci compete e sul quale non ci interessa competere.
L’importante è esser chiari con il cliente: se vuole lavorare su una (magari presunta dal cliente) patologia allora non siamo la professionalità giusta per i suoi intenti. Se vuole essere accolto e ascoltato come persona a prescindere dai suoi sintomi (non certificati) allora siamo e saremo a disposizione per fare un percorso di counseling. E’ fondamentale che il cliente sia informato, come fondamentale è che sia lui/lei a scegliere la professionalità a cui affidarsi: se lo fa il counselor al posto suo di fatto sconfina nella sua capacità di autodeterminazione che il counselor dice di voler favorire. Una evidente contraddizione. Non sta a noi stabilire eventuali patologie, ma occorre semmai stabilire se il percorso di counseling porti un qualche vantaggio e beneficio al cliente, secondo il contratto con lui stabilito ad inizio percorso.
Il numero degli incontri
Dire che se un counselor fa più di un tot di incontri “allora fa psicoterapia” è un’affermazione a mio avviso priva di qualsiasi costrutto deontologico e statistico, al netto di pareri, se pure autorevoli, e comunque non allineati fra loro. Il paziente lavoro di ascolto, l’affiancare le difficoltà della persona aspettando il momento giusto per dare il sostegno necessario, accogliere la limpidezza di un pianto arrivato quando doveva arrivare, riuscire a grattare le resistenze fino allo sgretolarsi, hanno bisogno di tempo. A volte poco, a volte molto.
La cura
Noi non siamo una professione sanitaria (e secondo me non è augurabile esserlo nemmeno in futuro): perciò quando utilizziamo il termine “cura” va da sé che lo intendiamo non in ambito medico, né riabilitativo.
Se la nostra attività di counseling sia riuscita in qualche caso o in molti casi a curare sintomatologie rilevate secondo un’ottica allopatica sanitaria non spetterà a noi determinarlo e, francamente, non abbiamo alcun interesse ad appurarlo.
Usare il termine “sedute”
Perfino un’estetista definisce senza troppi problemi quelle che fa ai propri clienti “sedute”. D’altronde si chiamano così perché i clienti stanno seduti... ma se lo fa un counselor dà adito al sospetto di sconfinare nella professione di psicologo... questo ha davvero dell’assurdo e ci racconta quanto ancora oggi la sudditanza psicologica nei confronti della professione di psicologo irretisca i counselor e, talvolta, li blocchi o li limiti.
E potremo proseguire oltre.
Ma allora come contraddistinguere una professionalità da un’altra?
Dagli strumenti che si usano. Ogni professionalità usa strumenti peculiari e/o li usa in modo diverso, pur nella considerazione che gli strumenti non sono sempre facilmente definibili, rigidamente inseribili in casellari tanto da farne normativa. Già in mano ad una professionalità piuttosto che ad un altra lo strumento cambia di forza, di slancio, di presa, perfino di prospettiva. Cambia il vissuto della mano che stringe lo strumento, cambiano gli studi sul come usarlo, cambiano gli obiettivi del suo uso.
Per tutto questo io credo che una forma mentis sul nostro essere counselor debba essere libera di crearsi oltre che da Rogers anche dalla Montessori, da Pirandello, dall’epistemologia buddista tibetana, dallo sciamanesimo siberiano, da Voltaire, da Fabrizio De André, senza riserve (ovviamente parlo di forma mentis, non di formazione al counseling).
Sarà il libero mercato delle professionalità della relazione di aiuto a dirci se operiamo bene o meno, se la nostra preparazione è adeguata o meno, sarà la nostra onestà intellettuale, deontologica ed etica sull’uso degli strumenti del counseling all’andare incontro a eventuali reati o inadempienze.
Prendiamoci la libertà di essere counselor.
Però sappiamo che la libertà senza regole è una libertà illusoria, adolescenziale, pericolosa. La libertà senza regole è una gabbia che non fa vedere le sbarre a chi ci sta dentro.
Un counseling “senza confini” non significa un counseling anarchico: tutt’altro, significa il rispetto di quelle regole che si sviluppano all’interno di uno scambio interpersonale di cura, di empatia, non giudicante, all’interno dell’integrità umana del professionista conquistata nella fatica del lavoro personale, approfondito, continuo, non autoreferenziale, professionalizzante. Svincolarci dai confini dettati da altre professionalità significa dare più corpo a queste regole, che sono poi le nostre caratteristiche migliori, le nostre specificità più spendibili sul mercato (perché di questo si tratta) dei servizi alla persona.
Staccarci dai perimetri delle patologie, dal linguaggio sanitario e segnatamente psicologico, dalla formazione e supervisione ad opera di altre professionalità, dalla visione per cui “il counselor sta a allo psicologo come un infermiere sta al dottore”, staccarci da quell’angolo in cui qualcuno ci ha formato salvo poi volerci lì fermi e buoni, significa dare una ulteriore libertà e dignità anche alla nostra professione. La diversità di vedute sul counseling è una ricchezza, non un limite. Stabilire "il counseling è questo, punto e basta" significherebbe soffocare una fiammella troppo bella da vedere, da alimentare, da far crescere.
Vorrei concludere queste riflessioni con un mio scritto di qualche tempo fa dal titolo
“NON CI CHIAMAVANO COUNSELOR”:
C'è stato un tempo in cui non ci chiamavano counselor.
Quando stavamo ai bordi dei villaggi e la gente veniva per un conforto, una chiarificazione, un aiuto ci chiamavano saggi.
Poi qualcuno di noi iniziò ad usare strani poteri e ci chiamarono sciamani.
Dopo, da qualche parte, diventammo preti, da qualche altra monaci.
Quando cominciammo a fare esperimenti con la chimica ci chiamarono alchimisti.
Poi arrivarono Freud, Jung, Rogers, Bowlby... e ci aiutarono a razionalizzare, a sistematizzare, a crescere.
Eppure continuammo a preferire la nostra pancia, il nostro cuore, la nostra anima.
Quando ci insegnarono a far passare tutto ciò dalla testa (intorno agli anni 40) diventammo professionisti.
E ancora oggi noi counselor siamo qua, al servizio di tutta la comunità, nessuno escluso, con amore, professionalità, empatia, accoglienza.
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